Dopo quasi 80 anni di peronismo, dittature militari, governi di sinistra, esperimenti fallimentari l’Argentina era con un piede nel baratro di tipo venezuelano.
Occorreva un miracolo che molti imploravano, ma nessuno si aspettava.
Ma il miracolo si è materializzato con l’avvento di Milei, un personaggio che nemmeno la fantasia di Borges avrebbe potuto partorire, con l'ardire di promettere tagli alla spesa pubblica (brandendo provocatoriamente una sega elettrica) in un paese dove la maggior parte della popolazione vive di sussidi pubblici, sinecure e prebende.
Ma il miracolo ancora più stupefacente si è prodotto dopo l'insediamento. Senza tentennamenti, alle promesse sono seguiti i fatti, nonostante il partito di Milei in Parlamento possa contare solo su pochi deputati e senatori.
La spesa pubblica è stata decurtata del 30% in termini reali con una raffica di decreti, portando il bilancio dello stato in attivo dello 0,3% del Pil, con avanzo primario pari all'1,5% del Pil nei primi 8 mesi del 2024. Un'inversione di tendenza così drastica in tempi di pace è sensazionale, più unica che rara.
Risanati i conti pubblici, la banca centrale non è stata più costretta a stampare moneta per finanziare il deficit pubblico, e quindi si è arrestata la spirale di inflazione e svalutazione. Il tasso mensile di inflazione che quando Milei è arrivato alla Casa Rosada a dicembre scorso, era schizzato al 25,5% a settembre è crollato al 3,5% e anche i prezzi alla produzione sono aumentati su base mensile solo dell’1,9%.
Contestualmente all'austerità fiscale, per frenare l'inflazione importata, il cambio ufficiale col dollaro da dicembre è stato sottoposto ad un regime di crawling peg dalla Banca Centrale, in sostanza una svalutazione pilotata del 2% al mese. Permane un regime di doppio cambio, ereditato dal governo precedente, ma la discrepanza tra tasso ufficiale e tasso nel mercato “libero” si sta riducendo fino a far ipotizzare la cancellazione delle restrizioni valutarie nella prima metà del 2025.
Il piano di stabilizzazione non è stata una passeggiata. Il PIL ha subito un tonfo del 3,4% nella prima metà del 2024; tuttavia i segnali di ripresa si sono manifestati già a luglio quando il Pil è cresciuto dell’1,7% su base mensile. Per il 2025 il FMI prevede un rimbalzo del 6%, trainato dall’aumento dei salari reali che ha ridato ossigeno ai consumi privati (le vendite al dettaglio sono in ripresa), dall'espansione degli investimenti e dal boom dell'export che i peronisti avevano devastato.
Ovviamente gli irriducibili scherani peronisti, decisi a far fallire Milei per tornare al potere, e la congrega internazionale della sinistra massimalista aizzano la canea sfascista menando scandalo per l’aumento dell’indice di povertà salito nella prima metà del 2024 al 53%.
In un paese di fatto in bancarotta, massacrato da decenni di malgoverno, parassitismo e clientelismo risalire la china non è mai indolore. Ma anche su questo fronte il peggio è passato. Con il risamento graduale dell’economia, il tasso di povertà dovrebbe calare a fine anno intorno al 40%.
Nonostante la cura da cavallo, l'indice di gradimento di Milei è stabile al 44%. Le le rivolte di piazza e i selvaggi moti di protesta di cui tanti stenterelli si erano riempiti le inutili bocche non si sono materializzate. A conferma del fatto che quando si sbatte in faccia la verità alla gente ipnotizzata dalle menzogne, il risveglio è duro, ma salutare.
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29 ott 2024
12 gen 2022
Argentina: il Peronismo Speronato
Il tracollo subìto dai peronisti lo scorso novembre nelle elezioni di metà mandato ha reso ancora più delirante la condotta di politica economica.
Appena dopo la batosta che gli aveva sottratto il controllo del Senato il Presidente Fernandez (che è un mero lacché della sua Vice-Presidente ed ex presidente Kirshner) aveva commentato laconicamente l’avanzata della destra e la perdita della maggioranza al Senato:
“Con queste elezioni si è chiusa una tappa". Più che una tappa si tratta di una toppa. Ma la pandemia, che ha esacerbato gli endemici problemi del paese, lascia poca speranza sul futuro. Il primo scoglio è il negoziato con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare il prestito (che era stato concesso sulla base di un programma troppo ambizioso) di 57 miliardi di dollari (record per gli interventi del FMI). Senza un accordo ,il paese non ha accesso ai mercati internazionali da cui prendere i capitali che servono permandare avanti l'economia. Invece di mettersi seriamente al lavoro il governo peronista nel negoziato assume posizioni provocatorie per fini di mediocre propaganda politica pseudo sovranista. Purtroppo per i nostri cugini sudamericani queste tattiche da baraccone producono ulteriore caos. Il debito pubblico con scadenza nel 2041 viene scambiato a meno di un terzo del suo valore facciale. E a marzo di quest'anno l'Argentina dovrebbe onorare una rata di US$ 2,8 miliardi al FMI che sul caso argentino si gioca la credibilità. Il Presidente Fernandez ha già asserito che per le casse (sfondate) del governo fondi di tale entità sono un miraggio. Nel frattempo, per evitare una crisi valutaria, il governo argentino ha rafforzato i divieti alle operazioni di conversione di pesos in dollari e ha introdotto controlli sui prezzi dei beni e servizi per raffreddare l'inflazione ormai oltre il 50%. Si tratta di misure suicide che distruggono il poco tessuto industriale superstite e massacrano i bilanci delle famiglie. Il Ministro dell'economia, un incapace totale di nome Martin Guzman, riesce a onorare qualche conto solo stampando pesos senza freni, come negli anni '70.
11 ago 2021
La Tunisia sull'orlo della guerra civile
Il 25 luglio il Presidente della Repubblica tunisina Kaïs Saïed, dopo una riunione di emergenza con i vertici militari, e della sicurezza interna ha destituiito il Premier Hichem Mechichi e vari ministri, sospeso il Parlamento (e l'immunita' parlamentare) avocando la direzione della Procura della Repubblica per indagare personalmente sulla corruzione dei politici. Infine ha assunto il potere esecutivo nominando un nuovo primo ministro, Ridha Ridha Garsallaoui.
Kaïs Saïed, per giustificare questo terremoto politico ha invocato l'art. 80 della Costituzione che gli conferisce ampi poteri in situazioni di emergenza. Nel caso specifico, secondo Saïed, l'emergenza è determinata da una triplice confluenza di fattori: la pandemia, la crisi economica (-8.8% la caduta del Pil nel 2020) e la corruzione endemica.
Probabilmente a far precipitare la crisi è stata il rapporto della governatore dellla Banca Centrale della Tunisia, Abbasi, secondo cui il paese è in una spirale di tipo venezuelano o libanese (per rimanere nel bacino del Mediterraneo). La Tunisia ha appena rimborsato un prestito da 500 milioni di dollari agli USA contraendo un debito con le banche locali a un tasso elevato.
Ad agosto è previsto un altro rimborso di 500 milioni di dollari, ma le casse dello stato sono vuote e con un debito pubblico che ha raggiunto il 91% del Pil solo un intervento del FMI può evitare il tracollo. La riforme chieste da Washington sono pesanti: in particolare eliminazione dei sussidi e lo sfoltimento degli 800mila dipendenti pubblici (che rappresentano una zavorrra insostenibile pari al 17% del Pil). Il potente sindacato UGTT le vede come una minaccia esistenziale ed evoca rivolte nelle strade.
Se la Tunisia fallisce inizia il calvario della ristrutturazione dei debiti. L'accesso ai mercati internazionali sarebbe bloccato e con esso gli investimenti strutturali. La Tunisia ha chiesto sostegno alla Libia (che non è messa meglio), al Qatar, alla Turchia, alla Banca Africana di Sviluppo ma senza ottenere nulla di concreto.
Ovviamente sono partite immediatamente le reazioni di chi grida al colpo di Stato soprattutto dal partito islamista Ennadha che ha la maggiornaza relativa in Parlamento.
Tuttavia larga parte della popolazione (specie i giovani), stufa di una classe politica inconcludente e corrotta, appoggia l'operato del Presidente. Il motivo oltrepassa le motivazioni economiche: questa crisi è parte di una contesa molto più ampia che infuria in tutto il mondo arabo e islamico tra i Fratelli Mussulmani (sostenuti da Turchia) e Qatar e i governi laici e secolari. Insomma le tensioni rischiano di sfociare in una guerra civile che rischia di investire anche l'Italia con un flusso di rifugiati.
11 apr 2021
L'imposta globale sui profitti e la natura della democrazia
La proposta al G20 della Segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen di istituire a livello globale una tassa minima del 28% sui profitti societari riapre il dibattito sulle imposte delle multinazionali, la concorrenza fiscale tra stati e la concorrenza sleale tra over the top che possono scegliere il domicilio fiscale e le aziende tradizionali che non possono sfuggire al fisco nazionale. Agli effetti pratici la mossa serve come bastone brandito dall'Amministrazione Yellen per convincere le aziende americane a rimpatriare i profitti altrimenti verranno colpite ugualmente nel portafoglio. Una nemesi molto brutale per i signori dell'Hi-Tech che hanno tirato entusiasticamente la volata a Biden avversando Trump con mezzi leciti ed illeciti. Uno strepitoso esempio di tafazzismo da parte dei geni di Silicon Valley.
Sull'argomento è intervenuto, con un articolo su La Stampa, Carlo Cottarelli asserendo (con ragione) che la concorrenza fiscale in realtà è un privilegio surretizio goduto dai paesi piccoli che rinunciando all'esiguo gettito fiscale estratto dalle aziende nazionali, possono ottenere enormi benefici attirando le grandi multinazionali. E ha anche ricordato la vecchia proposta per una World Tax Organization presentata da Vito Tanzi, suo predecessore al vertice del Dipartimento Fiscale del Fondo Monetario Internazionale.
Però un'agenzia globale sul prelievo fiscale, dovrebbe avere come controparte anche un'agenzia globale sulla spesa che fissi un limite alla possibilità dei governi di spendere le risorse espropriate ai contribuenti. E magari stabilisca anche delle best practices mondiali sui criteri e sull'efficienza dela spesa pubblica. Altrimenti la democrazia diventa un sistema di selezione delle classi dirigenti in base alla loro capacità di sottrarre risorse a una parte della società per distinarle alle lobby piu' potenti che gestiscono cospicui pacchetti di voti.
Insomma la democrazia classica con la tripartizione dei poteri viene sostituita da una lotta tra bande che si contendono il denaro pubblico e stabiliscono le regole per legalizzare il furto con la scusa della redistribuzione.
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