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17 mar 2021

L'inflazione da materie prime

La ripresa economica in Italia stenta a prendere piede, in Europa arranca, ma in molte altre economie è già una realtà, soprattutto in Cina. Per gli USA, l'Ocse ha di recente raddoppiato le previsioni di crescita e la disoccupazione si sta riassorbendo.

In questo contesto il mercato delle materie prime, da quelle energetiche ai metalli, è sotto pressione con i prezzi in crescita a tripla cifra, i container introvabili e i noli delle navi a livello stratosferico. Molte aziende hanno dovuto sospendere la produzione in attesa delle consegne.

Si tratta di una fiammata temporanea destinata a rientrare nell'alveo della normalità , oppure di un superciclo delle commodities dovuto a insufficienti investimenti per aumentare la capacita' produttiva? Quali saranno le ripercussioni sull'inflazione dei prezzi al consumo? E le banche centrali la cui politica monetaria ultraespansiva si basa sull'assenza di pressioni inflazionistiche come reagirà? Intensificheranno la repressione finanziaria per espropriare i bondholders o cominceranno a fare i conti con le follie del passato?



14 mar 2021

Uccelli Paduli Cinesi

La Cina e' un paese dove "la rule of law" e la protezione dei diritti di proprietà non esistono. I casi di furti, truffe, malversazioni eclatanti, violazioni delle regole e disprezzo degli obblighi contrattuali sono all'ordine del giorno. Alberto Forchielli in questo video racconta alcuni casi eclatanti di cui e' rimasto vittima e che offrono uno spaccato del "miracolo cinese" basato sull'illegalita' diffusa e sulla corruzione estesa fino ai vertici del potere.



Ne esce un quadro inquietante che getta una luce sinistra sul nuovo trattato tra Cina ed Unione Europea per la disciplina degli investimenti diretti (vedi il post Xi Jinping abbindola la Merkel). Prima di firmare questa aberrazione che rischia di penalizzare e depauperare le imprese europee e' necessario chiedere alla Cina di istituire un meccanismo giuridico internazionale indipendente dalle autorità cinesi per punire che viola le regole e rimuovere i politici che fiancheggiano i delinquenti.

8 mar 2021

Lo scatto della tigre cinese



Il governo cinese ha presentato gli obiettivi economici per il 2021 che possono essere riassunti in una dozzina di punti chiave:

- Crescita del PIL di oltre il 6%
- Oltre 11 milioni di nuovi posti di lavoro urbani
- Un tasso di disoccupazione urbano intorno al 5,5%
- Inflazione intorno al 3%
- Aumenti costanti sia del volume che della qualità delle importazioni e delle esportazioni
- Un equilibrio sostanziale nel saldo di bilancia dei pagamenti
- Crescita costante del reddito personale
- Un ulteriore miglioramento dell'ambiente
- Un calo di circa il 3% del consumo di energia per unità di Pil
- Una continua riduzione delle emissioni dei principali inquinanti
- Produzione di cereali di oltre 650 milioni di tonnellate
- Rapporto deficit / Pil intorno al 3,2%, leggermente inferiore a quello dello scorso anno.



Un programma ambizioso proiettato sul futuro e che si salda con la subdola diplomazia vaccinale che la Cina sta perseguendo per acquisire influenza in Asia e nei paesi emergenti.

18 feb 2021

Il dollaro dai piedi di argilla



A cavallo delle due guerre mondiali. Con la sconfitta della Germania nazista, l'instaurazione del Sistema di Bretton Woods e l'estinzione dell'Impero Britannico, tale preminenza si rafforzo'. Ancora oggi rimane largamente incontrastata, nonostante l'euro abbia guadagnato terreno e molti guardano allo yuan come un potenziale rivale (cosa improbabile, visto che la valuta cinese non e' ancora convertibile sui mercati internazionali). Ma la quota dell'economia USA nel Pil mondiale e' in declino ormai da oltre 50 anni. Per mantenere questo ruolo internazionale del dollaro, la bilancia dei pagamenti statunitense deve sopportare deficit sempre piu' alti.



La rinuncia alla convertibilita' del dollaro in oro sulla base di una rapporto fisso, decretata da Nixon nel 1971, terremoto' l'economia mondiale e provoco' danni per tutto il decennio. Stagflazione, bancarotte di stati, crisi petrolifere, perdita di potere d'acquisto perdurarono fino all'avvento di Reagan. L'emergere della Cina come seconda economia mondiale e dell'euro come valuta di un'immensa area economica abbiamo minato le fondamenta sui cui poggiava il ruolo internazionale del biglietto verde. Questa fragilita' costituisce un rischio grave per tutta l'architettura finanziaria globale soprattutto ora che gli USA devono emettere una montagna di debito per rilanciare l'economia devastata dalla pandemia. Un remake degli anni '70



24 gen 2021

Romano Prodi fa una Lezione a Tutto Campo




Romano Prodi e' stato ai vertici delle istituzioni italiane ed europee abbracciando un periodo che va dagli anni 70 fin quasi ai nostri giorni. Mantiene un'intensa attivita' pubblica sui media e svolge numerosi incarichi di prestigio anche all'estero. Conserva una straordinaria lucidita' e in questo video spazia dai temi di stretta attualita' (ad esempio la presidenza Biden, la Brexit, la difesa europea, la guerra in Libia) agli aneddoti su Putin, Obama, Major, Clinton, Bush e tanti altri.



Perle di saggezza e un bagaglio di esperienze che contrastano nitidamente con la squallida mediocrazia a cui siamo sottoposti dall'informazione paludata del Belpaese. E soprattutto che si ergono come montagne di fronte alla misera inconsistenza dei leader attuali.

3 gen 2021

Xi Jinping Abbindola la Merkel


La Cina e' stata per buona parte degli scorsi due millenni la potenza economica dominante nel mondo. Poi, a partire dalla rivoluzione industriale ha perso terreno sino a diventare un paese arretrato ridotto alla fame durante il regime maoista. Dall'avvento di Deng Xiaoping l'Impero di Mezzo ha risalito la china di un declino plurisecolare ed ora rivaleggia con gli Usa per la supremazia mondiale.





L'Unione Europea in questa rivalita' ancora non ha definito il proprio ruolo e rischia di fare la fine del proverbiale vaso di coccio. Per questo la firma del EU-China Comprehensive Agreement on Investment (CAI) assume un'importanza cruciale per il futuro del Vecchio Continente. Dopo sette anni di negoziati che contendevano alla tela di Penelope il primato dell'inconcludenza, all'improvviso la Merkel e Xi Jinping hanno raggiunto un accordo di massima che il Parlamento Europeo dovra' ratificare probabilmente in estate.



L'improvvisa accelerazione e' dovuta alla voglia della Merkel di coronare con un successo il semestre di presidenza tedesca della UE e l'urgenza di Xi Jinping di mettere la nuova amministrazione Biden di fronte a un fatto compiuto di enorme portata geostrategica. Purtroppo senza modifiche sostanziali i benefici del CAI per la UE sono di portata modesta anzi potrebbero rivelarsi controproducenti. Inoltre e' vergognoso che l'UE si presti a fare da lacche' del regime cinese che arresta i membri dell'opposizione a Hong Kong e perseguita gli Uiguri.

28 dic 2020

La Merkel si Piega a Huawei





La Germania ha calato pantaloni, sottane e biancheria intima assortita di fronte alle pressioni della Cina con cui da tempo vanta un robusto surplus commerciale. Il governo tedesco infatti ha varato un disegno di legge sulla sicurezza IT, che di fatto consente l'adozione della tecnologia Huawei per le reti 5G. La foglia di fico addotta per mettere in mano ai cinesi una infrastruttura cruciale sarebbero i tempi piu' lunghi necessari per impiantare tecnologia di Nokia ed Ericsson.

Eppure i paletti fissati dalla legge sono in pratica una farsa neanche tanto comica: non esistono metodi per assicurare che la multinazionale cinese non inserisca spyware per carpire informazioni da aziende e cittadini tedeschi (e gli stranieri con i quali comunicassero). Insomma la Germania ha approfittato della transizione negli Usa per mettere l'Amministrazione Biden di fronte al fatto compiuto. Uno strappo che rischia di compromettere la strategia di contenimento dell'espansione cinese e che ignora sfacciatamente il bullismo della Cina contro i paesi del Pacifico alleati dell'Occidente, ad esempio l'Australia. Oltretutto la Cina sta anche premendo sui paesi dell'Unione Europea per firmare in tempi rapidi il Trattato sugli investimenti diretti, che viene negoziato da otto anni e riguarda temi fondamentali: l’accesso dei mercati cinesi, la reciprocità dei trattamenti tra Europa e Cina, le regole sui sussidi, il raggio di azione delle aziende di stato, ecc.

La Merkel voleva arrivare a firmare una bozza per coronare il semestre di presidenza UE della Germania, ma Xi Jinping ha menato il can per l’aia, in attesa di conoscere il risultato delle elezioni presidenziali in Usa. Nelle ultime settimane invece da Pechino e' arrivata una spinta propulsiva per la firma. Il Presidente cinese ha parlato con la Cancelliera tedesca prima e poi con Presidente Macron. Sulla stampa ufficiale di Pechino il tema trovava ampio spazio. Ma sarebbe un errore fatale per l'Ue farsi incastrare in un accordo che promette tanto sulla ma che non prevede alcun meccanismo di enforcement e le cui regole possone essere facilmente ignorate da uno stato totalitario.

15 dic 2020

Hunter Biden, da Cacciatore a Preda





A piu' di un mese dall'inaugurazione di Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti, i venti degli scandali gia' infuriano sui cieli di Washington. Il figlio Hunter, ha ammesso di essere sotto indagine di un Grand Jury per una evasione fiscale connessa ai rapporti con un fondo di private equity legato al governo di Pechino. Della vicenda aveva scritto il New York Post a ridosso delle elezioni, ma la notizia era stata censurata da giornali, televisioni (eccetto Fox News) e social media tutti schierati a favore di Biden. In Italia la cortina di silenzio e' stata ferrea. Al massimo qualche vago accenno in TV e un trafiletto ben celato nelle pagine interne.
Addirittura 50 personalita' con esperienza a livello senior nell'intelligence americana avevano firmato un documento in cui affermavano che si trattava di un'operazione di disinformazione orchestrata dai russi. Adesso che la notizia e' stata confermata questi esimi esperti di controspionaggio sono spariti dal radar mediatico.

La faccenda e' politicamente esplosiva perche' l'influenza della Cina sulle istituzioni e sull'economia americana da alcuni giorni e' stata posta in una luce sinistra da inchieste giornalistiche che coinvolgono deputati del Partito Democratico finiti nella rete di giovani spie cinesi che raccoglievano fondi per le loro campagne elettorali e che si infilavano persino sotto le loro lenzuola. Nella rete e' cascato come una pera Eric Swalwell, uno dei giovani astri nascenti dei Democratici. Paradossalmente era un critico feroce di Trump che accusava con veemenza di collusione con paesi stranieri. Dal gennaio 2015 era membro dell'House Permanent Select Committee on Intelligence (il Copasir americano) del Congresso dove si esaminano tutti i segreti piu' scottanti per la sicurezza nazionale. La Speaker della Camera Pelosi, pur informata delle relazioni pericolose di Swalwell con sospetti agenti stranieri, non lo ha rimosso dalla carica delicatissima.



Neanche Wall Street e' stata risparmiata: le grandi banche e i fondi hanno da tempo enormi interessi in Cina e quindi il governo cinese utilizzava il canale dell'alta finanza di New York per esercitare pressioni sui politici a Washington. Secondo Di Donsheng, professore alla Renmin University in Beijingcon, la presidenza Trump queste interferenze hanno trovato un ostacolo insormontabile perche' le relazioni tra Trump e Wall Street erano poco cordiali, anzi decisamente burrascose per faccende risalenti al soft default delle sue societa' immobiliari. Ad esempio durante la guerra commerciale USA-Cina Wall Street non ha toccato palla. Quanto al Presidente eletto Joe Biden (o Bidon?), sara' arduo insistere di non sapere alcunché degli affari del figlio Hunter (fonte costante di imbarazzo per la famiglia tra droghe e donnine allegre). E sara' ancora piu' difficile negare che nelle posizioni chiave dell'Amministrazione entrante sono state nominate personalita' notoriamente filocinesi.

Lunedì scorso, John Ratcliffe il direttore della National Intelligence degli USA (la rete di contro spionaggio) aveva affermato, in un'intervista a Tucker Carlson Tonight su Fox News, che sebbene la Cina non abbia ancora raggiunto gli Stati Uniti come la più grande superpotenza del mondo, i politici devono preoccuparsi dell'incombente minaccia che l'Impero di Mezzo rappresenta. L'intervista ha echeggiato il recente discorso di Mike Pompeo, Segretario di Stato, in sostanza un durissimo atto d'accusa alla Cina e al suo obiettivo di soppiantare gli Usa come potenza dominante attraverso furti di tecnologia e altri mezzi fraudolenti o poco ortodossi. Persino alla Nato e' scattato l'allarme rosso. Insomma il Chinagate come ormai viene definito lo scandalo potrebbe risultare fatale per la Presidenza Biden ancor prima di cominciare. I Repubblicani spingono per la nomina di un Procuratore Speciale che faccia luce sulle tresche della Famiglia Biden. Kamala Harris in questi giorni e' stranamente assente dalla scena. Forse e' impegnata a scaldarsi a bordo campo.

24 nov 2020

L'Australia nel Mirino della Cina





I rapporti tra Australia e Cina da anni non sono propriamente idilliaci a dispetto degli intensi rapporti commerciali che ammontano a 120 miliardi di dollari. Il novero delle frizioni e' cresciuto nel tempo e con l'avvento di Trump l'Australia ha imboccato decisamente una rotta di collisione con le sensibilita' cinesi. Ad esempio l'Australia ha bandito Huawei dalle infrastrutture 5G e approvato una legge contro gli investimenti stranieri (che colpiva soprattutto quelli cinesi).





Lo scoppio della pandemia ha esacerbato le tensioni. Ad aprile l’ambasciatore cinese a Canberra aveva criticato il governo australiano per essersi accodato alla richiesta americana di un’indagine internazionale sull’origine dell'epidemia di Covid-19. Il diplomatico aveva avvertito che compiacere gli Stati Uniti poteva essere “pericoloso”, perche' avrebbe comportato il boicottaggio delle importazioni australiane.

La faccenda si era stemperata, fin quando politici e media australiani hanno stigmatizzato l'espulsione di deputati di opposizione dall'assemblea legislativa di Hong Kong. Da Pechino e' partita una secca minaccia di ulteriori sanzioni commerciali. In pratica il governo cinese ha intimato agli importatori lo stop agli acquisti di almeno sette categorie di prodotti australiani: carbone, orzo, minerale di rame e concentrato, zucchero, legname, vino e aragoste (che per il 90% finiscono sulle tavole dell'Impero di Mezzo). Insomma Xi Jinping intende fare un esempio dell'Australia per dissuadere altri paesi del Pacifico dall'allinearsi agli USA. [Vedasi anche https://energiaoltre.it/carbone-australia-cina/]

La risposta di Canberra pero' ha lasciato pochi dubbi sulla determinazione a resistere al bullismo cinese:
"Il governo australiano prende decisioni valide nel nostro interesse nazionale e in conformità con i nostri valori e processi democratici aperti", ha detto un portavoce del Dipartimento degli affari esteri e del commercio. "Siamo una società democratica liberale con mezzi di comunicazione liberi e una democrazia parlamentare, dove i membri eletti ei media hanno il diritto di esprimere liberamente le loro opinioni".


Il governo britannico e' stato tra i pochi, se non l'unico, a manifestare solidarieta' ai cugini il cui capo di stato è ancora la Regina Elisabetta, stigmatizzando il bullismo cinese. Gli altri leader (incluso Trump) invece si sono trovati tutti uniti nella strategia dello struzzo.

Ma comunque le sanzioni cinesi hanno avuto un gravissimo effetto sulle esportazioni di vini australiani in Cina che praticamente si sono azzerate. Recentemente e' stato suggerito di impostare una strategia comune di reazione per tutto l'Occidente contro la Cina, in analogia all'articolo 5 del Trattato Nato. Ogni aggressione sul piano economico ad un paese membro deve essere considerata un'aggressione a tutti i membri dell'Alleanza e quindi innescare un processo di difesa comune imcentrato su ritorsioni commerciali. Nota: Per chi volesse un'analisi storico-politica approfondita sulle relazioni tra Australia e Cina consigliamo questo documento del Parlamento Australiano
https://www.aph.gov.au/sitecore/content/Home/About_Parliament/Parliamentary_Departments/Parliamentary_Library/Publications_Archive/CIB/CIB9697/97cib23

20 ott 2020

Un Chip Sottopelle Sostituira' il Portafogli?



Quasi tutte le maggiori banche centrali (inclusa la Bce) stanno valutando l'introduzione di mezzi di pagamento elettronici.
Le autorita' monetarie cinesi sembrano ad uno stadio piu' avanzato. Le sperimentazioni sono già in corso in quattro grandi città pilota scelte dalla People's Bank of China e coinvolgono sette grandi banche commerciali. Alcuni ventilano l'ipotesi che con lo yuan digitale la Cina voglia attaccare il primato del dollaro nelle transazioni internazionali.

La BCE dal canto suo ha annunciato alcuni giorni fa che a Francoforte si sta seriamente studiando un progetto su cui la Banca d'Italia ha assunto l'iniziativa. Nonostante una straordinaria diffusione delle transazioni digitali sin dall'introduzione dell'euro, in Euroloandia il 75% degli acquisti avviene ancora in contanti. Tuttavia esiste gia' in nuce una piattaforma, il TIPS, (Target instant payment settlement) concepita, sviluppata e gestita - dalla Banca d'Italia per l'Eurosistema. In teoria si potrebbe estendere l'accesso a imprese e privati.
Per sondare l'accettazione di vari stakeholders la Banca d'Italia, ha lanciato una consultazione pubblica.
Invece sull'altro lato dell'Atlantico, nonostante tutta questa febbrile attivita' delle "concorrenti", la Federal Reserve americana, per il momento non sembra intenzionata ad implementare il lancio della sua moneta digitale.

In questa puntata (aiutandoci con una tabella preparata da Luca Fantacci su Lavoce.info) spieghiamo cosa sono queste monete digitali, perche' sono diverse dalle cripto monete come Bitcoin o Ethereum e anche da Libra, la valuta vagheggiata da Mark Zuckerberg.

Insomma invece del portafogli useremo un chip sottopelle per pagare al supermercato e al bar?

29 mag 2011

Why Chinese inflation could mean a better world for everyone

I published this column on Executive Magazine:

The spectacular rebound of emerging markets after the recent recession was driven in no small part by China’s emergency stimulus package in late 2008, arguably the timeliest and the largest in the world (relative to gross domestic product). The pull of Chinese demand was powerful enough to revitalize international trade — severely curtailed by the crunch in trade finance — and to drag out of the hole many of the economies well integrated in the Chinese supply chain, from Malaysia to Korea, and Australia to Germany.

The flip side of this stimulus has been a worrisome boom in real estate prices (which has led many to scream “Bubble!”) and persistent inflationary pressures which have extended across Asia (excluding Japan), complicating the macro picture at the national and global level. Asian central banks (and also Latin American ones) until late last year were reluctant to aggressively raise interest rates, lest they clip the green shoots of recovery. But with the upturn in emerging markets, food and commodities prices worldwide resumed their surge; since the beginning of this year this surge has been exacerbated by oil price reaction to the turmoil in North Africa. Amplifying this effect is the premature end, after Japan’s Fukushima disaster, of the much touted “nuclear renaissance” that was supposed to substantially curtail hydrocarbons in the world energy mix.

China remains to-date the epicenter of inflationary pressures, despite the fact that authorities were the first to react decisively by increasing reserve requirements up to 20 percent for top lenders, restricting credit to the real estate sector and hiking interest rates four times since October. Nevertheless, in March, Chinese inflation hit a three-year record of 5.4 percent per annum, while in India, which is also experiencing a generalized price surge, it reached almost 9 percent; across the emerging markets generally, from Korea to Brazil, price levels are overheated.

Conventional wisdom and mainstream policy advice suggests that the Chinese authorities should act even more aggressively to counter further price hikes, and indeed solemn pledges to this effect figure prominently in public statements by senior politicians. But China generally defies conventions and an alternative course of action appears to be gathering consensus within policy circles. The new five-year economic plan sets a 4 percent inflation target for this year, and Chinese authorities have signaled that in the medium term they would be comfortable with inflation between 4 percent and 5 percent, which represents a substantial increase compared to previous years.

Furthermore, national and local governments have enacted a spate of hefty salary increases: since the beginning of the year, 12 Chinese provinces and provincial-level municipal cities have raised their minimum wages. The average adjustment over the 12 provinces was 21 percent with the highest hike, 28 percent, being decreed in Chongqing, in central western China (outside the coastal belt where manufacturing is concentrated). Incidentally, thanks to a 20 percent rise, Shenzhen replaced Shanghai to become the city with the highest minimum monthly wage in China (approximately $203). If we consider a longer horizon, since last year 30 provinces raised the minimum wage, often by double digits.

These measures were justified by the need to attract labor from the inner regions and to improve living standards, an issue that had taken center stage in domestic politics after strikes and workers unrest spread across the country, threatening to become a widespread phenomenon.

Whether by happenstance or by design, it seems that an unorthodox policy recipe is emerging. One of the foremost issues confronting the Group of 20 countries is the rebalancing of the current-account surplus by China and Germany and other mercantilist oriented countries. The most vocal critique of China’s export-led strategy has been the United States, which (stirred by Congress) has used such criticism to push for a revaluation of the yuan.

The Chinese government and central bank are aware that an ever-increasing current-account surplus is not sustainable (the foreign exchange reserves have reached a walloping $3 trillion), but might be contemplating an alternative route; instead of revaluing the nominal exchange rate (as demanded by the US and others) they are increasing the real exchange rate.

By raising domestic wages they boost domestic inflation, thereby losing competitiveness, but Chinese workers feel the benefits more than foreign competitors. In essence, the Chinese government seems to be pursuing a redistributive policy in favor of the domestic population with the aim of boosting internal demand and reducing the current account surplus.

It is hard to say how this policy will turn out; it certainly carries risks, as once a price/wage spiral is triggered it becomes hard to control, but a few implications for the global economy and the Middle East are clear.



Over the past three decades China has become the world manufacturer and has been the most powerful force behind a relentless deflation in traded goods — reveled in by the rest of the world — thanks to an almost inexhaustible supply of cheap labor. This process is reverting, and with China’s inflation on the rise it is only a matter of time before a global reverberation is felt.

If one adds the effects of money printing in the US and the need to monetize at least in part public debts in mature countries, foremost in the Eurozone, the next few years will present serious challenges for monetary policy; the word ‘stagflation’ is likely to make a comeback in everyday parlance.

This change will not be a temporary adjustment, but will represent a structural shift in the global economic environment, affecting greatly the smaller economies in the Middle East and elsewhere. In particular, the Gulf Cooperation Council countries will find themselves again ensnared, like in 2006-2008, in a monetary policy determined by the US Federal Reserve to serve its domestic goals, but utterly inadequate for the conditions of GCC economies.

Furthermore, the central banks and the sovereign wealth funds that manage the accumulated export revenues are typically exposed to fixed income securities denominated in US dollars. At present, the safe haven status and the anemic credit conditions have held bond prices remarkably stable (excluding of course troubled countries such as Greece or Portugal). But when markets realize that higher inflation is not a blip, the adjustment could be traumatic for fixed income securities. There are no simple solutions to this kind of tectonic shift, but a revamping of the GCC’s common currency project could not be more timely. A degree of flexibility in monetary policy and a new strong international currency would be in the best interests of the oil exporters and also indirectly, those of other countries in the region.

The surge in Chinese wages will also lead domestic consumption to replace exports as an engine of growth. This swing has a long course to run as private consumption represents a remarkably low percentage of China’s GDP. The effects of the Chinese boom have thus far benefited countries and companies embedded in China’s supply chain, but from now on the effects of the stimulus could reach those countries and companies that cater to Chinese consumers, in particular in the provision of durable goods for the expanding middle class — washers, cars, furniture and high end services, such as tourism, healthcare and financials.

A benevolent interpretation posits that, far from being a serious worry, inflation spurred by the loose wage policy tolerated — and often encouraged — by the Chinese authorities could be another step in the long march toward better quality of life within China and the harbinger of a great leap forward for the world economy.